martedì 9 novembre 2010

Anima e Corpo p19

Quello che nella tecnica teatrale si chiama presenza scenica, trasferita nella
dimensione esistenziale, è la presenza. Solo che il teatro è un laboratorio che consente
di articolare l’intervento, sia a livello di integrazione, sia a livello di appoggio-
sostegno per fare questo cambiamento. Il piano politico è la premessa, il sentimento
del diritto è anche un sentimento sociale che viene dal fatto che il soggetto
è visto, è riconosciuto e occupa uno spazio assolutamente reale che gli
appartiene. Quindi una parte importante del lavoro arteterapeutico in ambito teatrale,
è nel fare sì che il soggetto avverta di essere un io che occupa uno spazio,
intervenendo proprio su questo meccanismo corporeo-spaziale, perché lo spazio
esiste nella dimensione sociale in quanto esperienza concreta dello spazio. Lo spazio
del fisico nucleare non è lo stesso spazio dello psicologo. Lo psicologo sa che
lo spazio è psicologizzato, in quanto esperienza spaziale in termini di avvicinamento,
allontanamento, distanza, sentimento di soffocamento, angoscia di disgregazione
dell’agorafobico etc.. Parliamo di situazioni estreme, ma i livelli intermedi
sono l’esperienza quotidiana e perciò l’esperienza dello spazio è il modo in
cui l’auto-rappresentazione di sé organizza la posizione che il soggetto ha nell’ambiente
attraverso schemi visivi-posturali-spaziali, che si nutrono ovviamente
del contesto sociale, e che richiedono di essere visti, riconosciuti, per poi poter
entrare nell’interazione. Allora la dimensione culturale specifica rientra fortemente:
culture restrittive, neganti, falsamente liberatorie -ci sono anche quelle-, e
quindi il discorso di trasformazione individuale diventa anche un discorso di trasformazione
sociale -argomento che presuppone anche la presenza di spazi che
non tutti sono disposti a dare: ecco che questo sentimento del diritto di esistere è
un punto di integrazione dei diversi livelli funzionali-.
Chiudo dunque con Shakespeare, in cui Amleto spiega come bisogna recitare,
perché c’è una parte del teatro che è di per sé esperienziale, trasformativa. Noi
spesso ci chiediamo: “che cosa ci vuole per fare un normale?” Perché, così come
si ha l’idea del corpo-macchina e non del corpo-storia, si pensa che si nasca normali
salvo disturbi di natura genetica, che esistono e che comprendiamo, e che poi
ci possano essere delle deviazioni. E invece no, …il normale si costruisce.
Per esempio: Lei, quante volte l’hanno chiamata col suo nome? L’hanno vista
dal primo giorno che è nata? Cominci a contarle. E se questo non è mai successo?
Per costruire un’identità così detta “normale”, è sufficiente un incontro occasionale
col modo dei propri sentimenti? L’esperienza teatrale serve a costruire il
“normale”? E’ tutta la socialità che viene chiamata in causa nella costruzione della normalità,
che diventa poi necessità terapeutica quando si impoverisce. Perciò non
c’è una soluzione di continuità tra la teatroterapia e il teatro. Shakespeare suggerisce ad Amleto come bisogna recitare. Dice tante cose, parla contro i teatranti
urlatori, etc., e in più scrive: “Bisogna unire la parola al gesto”. Egli comprende
dunque che l’attore deve lavorare su un processo di integrazione. Noi, a questo,
aggiungiamo: “Unire la parola al gesto e all’immaginazione”.

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