martedì 9 novembre 2010

Domande e risposte 2

Walter Orioli: “Rispetto a questo problema o tematica dell’auto-rappresentazione,
da un punto di vista specificamente teatrale, che rapporto c’è tra la costruzione
del personaggio (o dell’azione scenica) e l’auto-rappresentazione di se stessi?”

Vezio Ruggieri:
Questo è un dibattito che si trova anche in altri contesti, negli scritti tra
Diderot e Stanislavskij. Molti teorici di teatro sono affascinati da Diderot e dicono
che lui ha ragione. Poi, nella pratica il modello pedagogico stanislavskijano è
il più praticabile. La domanda si riferiva al lavoro che si fa su un personaggio,
cominciando a capirne la dimensione espressiva di piccoli atti, delle piccole azioni.
Però Diderot dice qualche cosa che fa riflettere anche, scrive: “il grande attore
non si identifica completamente col personaggio”. Non si identifica, questo è il
paradosso. Perché se si identificasse col personaggio, non potrebbe portare fino in
fondo la sua esperienza teatrale. “Se io mi commuovo ed ho una crisi di pianto”,
dice Diderot, “mi sono talmente identificato col personaggio che non posso procedere
a recitare perché mi si blocca la voce etc.”.
L’emozione portata fino in fondo, non soltanto accennata -accennarla significa
produrla in realtà-, scavalca l’identità nucleare del soggetto e può esser di
impedimento all’esperienza teatrale. Gli sbalzi d’identità, che nel teatro si sperimentano,
sono sbalzi non sempre tollerabili dall’io. Sono tollerabili quando c’è
una struttura nucleare dell’io così forte e stabile che riesce ad assumere le diverse
sub-identità senza perdere un minimo di distanza critica da sè. La nostra ricerca
ci porta ad osservare che questo annodarsi delle sub-identità è un fatto fisico
che avviene attraverso i muscoli…

Domande e risposte 1

“Lei ha citato “personalità”…è possibile dare una definizione di questo termine?
Poi, ha detto che la postura è sempre un fenomeno psicologico, quindi
quali sono i limiti dell’intervento sulla modifica della postura, anche in educazione
fisica, ginnastica ecc.?”
Vezio Ruggieri:
Chi si occupa di psicologia, sa che la definizione di personalità non è semplice,
tanto è vero che le discipline si chiamano ‘teorie della personalità’; quindi,
ogni definizione presuppone una teoria. Nella psicologia, c’è quella riduttivamente
sperimentale che descrive solo la percezione priva di contesto, ricerche che
sono state utili in passato, teoria della Gestalt oppure teorie più fisiologiche etc.,
mentre noi studiamo i processi fisiologici in funzione della struttura integrata dell’io.
Si capisce però che la psicologia non dà una visione unitaria al concetto di
personalità, soffre di un sincretismo culturale, che si estende poi, e si moltiplica a
livello dei trattamenti psicoterapeutici. Le scuole, quelle serie, tra psicoanalitiche
e psicoterapeutiche saranno una decina -quelle ad orientamento cognitivo, comportamentale,
quelle ad orientamento gestaltico, quelle transazionali-. Ognuna di
queste parte dalla costruzione di un modello dell’io che è assunto più dall’esperienza
clinica che da una elaborazione di ricerca sistematica in laboratorio, al contrario
di quello che ha fatto il resto dell’intervento medico che, a partire dal ’400,
ha cominciato a segmentare il corpo umano, a conoscerne la struttura, a studiare
il processo di normalità per poi passare a capire la patologia.
Nel campo della psicologia clinica, la pressione sociale e il disagio hanno sollecitato
la ricerca biochimica, farmacologica, che può anche essere utile se utilizzata
in funzione dell’io, ma non proposta come unicità. Manca, tutt’oggi, una
visione unitaria del corpo-mente in azione. Io posso cominciare a dire qual è la
nostra visione….
La mia auto-rappresentazione cambia secondo la relazione in cui mi trovo. Se
io mi comportassi con i miei figli come mi comporto durante una lezione, che
stress! Allora la mia auto- rappresentazione nelle relazioni cambia e si crea una
sub-identità, che ancora diversa rispetto a quando io mi rapporto con i miei genitori.
Però, è sempre un concetto immaginativo visuo-posturale-spaziale.
L’integrazione di queste sub-identità non avviene solo a livello cerebrale, bensì, in primo luogo, a livello corporeo. Allora il campo del teatro è interessante perché
significa proporre l’assunzione di sub-identità fittizie, che sono il cuore di un
laboratorio, e di misurarsi nella difficoltà di questa operazione senza imporla. E,
per ottenerla, qualche volta si richiede un lavoro propedeutico, trasformativo, di
rimuovere le inibizioni laddove è possibile, laddove i meccanismi di inibizione
corporei sono troppo presenti. Questo è la personalità e la struttura dell’io come
un sistema di integrazione che unifica sub-identità, ognuna di queste verticali,
cioè che interessano il cervello sia come area immaginativa che come base di una
funzione, perché non bisogna confondere l’immaginazione col cervello. Molti
neurologi confondono il pensiero col cervello, ma il pensiero è una funzione di
certe parti del cervello: il pensiero linguistico, quello visivo etc.
L’auto-rappresentazione è immaginativa, quindi cerebrale, ma si realizza attraverso
il corpo. E nel corpo possiamo trovare anche frammenti di sub-identità che
sono parziali e che tramite analisi possiamo sviluppare.
Ma questo entra in un intervento più psicofisiologico che può confinare col
tema dello psicodramma, che è un altro punto su cui Walter Orioli sottolinea la
necessità di operare delle definizioni…

Anima e Corpo p19

Quello che nella tecnica teatrale si chiama presenza scenica, trasferita nella
dimensione esistenziale, è la presenza. Solo che il teatro è un laboratorio che consente
di articolare l’intervento, sia a livello di integrazione, sia a livello di appoggio-
sostegno per fare questo cambiamento. Il piano politico è la premessa, il sentimento
del diritto è anche un sentimento sociale che viene dal fatto che il soggetto
è visto, è riconosciuto e occupa uno spazio assolutamente reale che gli
appartiene. Quindi una parte importante del lavoro arteterapeutico in ambito teatrale,
è nel fare sì che il soggetto avverta di essere un io che occupa uno spazio,
intervenendo proprio su questo meccanismo corporeo-spaziale, perché lo spazio
esiste nella dimensione sociale in quanto esperienza concreta dello spazio. Lo spazio
del fisico nucleare non è lo stesso spazio dello psicologo. Lo psicologo sa che
lo spazio è psicologizzato, in quanto esperienza spaziale in termini di avvicinamento,
allontanamento, distanza, sentimento di soffocamento, angoscia di disgregazione
dell’agorafobico etc.. Parliamo di situazioni estreme, ma i livelli intermedi
sono l’esperienza quotidiana e perciò l’esperienza dello spazio è il modo in
cui l’auto-rappresentazione di sé organizza la posizione che il soggetto ha nell’ambiente
attraverso schemi visivi-posturali-spaziali, che si nutrono ovviamente
del contesto sociale, e che richiedono di essere visti, riconosciuti, per poi poter
entrare nell’interazione. Allora la dimensione culturale specifica rientra fortemente:
culture restrittive, neganti, falsamente liberatorie -ci sono anche quelle-, e
quindi il discorso di trasformazione individuale diventa anche un discorso di trasformazione
sociale -argomento che presuppone anche la presenza di spazi che
non tutti sono disposti a dare: ecco che questo sentimento del diritto di esistere è
un punto di integrazione dei diversi livelli funzionali-.
Chiudo dunque con Shakespeare, in cui Amleto spiega come bisogna recitare,
perché c’è una parte del teatro che è di per sé esperienziale, trasformativa. Noi
spesso ci chiediamo: “che cosa ci vuole per fare un normale?” Perché, così come
si ha l’idea del corpo-macchina e non del corpo-storia, si pensa che si nasca normali
salvo disturbi di natura genetica, che esistono e che comprendiamo, e che poi
ci possano essere delle deviazioni. E invece no, …il normale si costruisce.
Per esempio: Lei, quante volte l’hanno chiamata col suo nome? L’hanno vista
dal primo giorno che è nata? Cominci a contarle. E se questo non è mai successo?
Per costruire un’identità così detta “normale”, è sufficiente un incontro occasionale
col modo dei propri sentimenti? L’esperienza teatrale serve a costruire il
“normale”? E’ tutta la socialità che viene chiamata in causa nella costruzione della normalità,
che diventa poi necessità terapeutica quando si impoverisce. Perciò non
c’è una soluzione di continuità tra la teatroterapia e il teatro. Shakespeare suggerisce ad Amleto come bisogna recitare. Dice tante cose, parla contro i teatranti
urlatori, etc., e in più scrive: “Bisogna unire la parola al gesto”. Egli comprende
dunque che l’attore deve lavorare su un processo di integrazione. Noi, a questo,
aggiungiamo: “Unire la parola al gesto e all’immaginazione”.

Anima e Corpo p18

Ritengo piuttosto che un facile esempio da documentare possa essere proprio
quello del linguaggio verbale: i suoni prodotti in una determinata lingua rappresentano
il prodotto di uno schema linguistico, quindi di un atteggiamento motorio
espressivo.
Nel teatro si lavora sulle corde vocali in vibrazione, sulle onde sonore che raggiungono
i risuonatori, su ciò che la mente traduce del nostro comportamento
manifesto.
Noi, attualmente, consideriamo il linguaggio come un gesto sonoro complesso.
Per esempio, il Papa attuale, dopo tanti anni in Italia, si è preso questo atteggiamento
di lingua [in altre parole parla l’italiano con accento tedesco] perché il
processo motorio che produce il linguaggio non può cambiare, bensì muta la sua
personalità. Se voi cominciate ad osservare gli schemi espressivi del corpo nel
dettaglio, vedrete delle varianti strutturali. Cosa vuol dire? Che le informazioni
del corpo (secondo quel determinato livello di tensione -perché il corpo lo dovete
immaginare come un distributore di tensioni, qui più teso, qui meno teso-…)
arrivano al cervello per formare l’auto-rappresentazione e danno luogo ad un processo
immaginativo auto-rappresentazionale che, a sua volta, controlla le afferenze
che vanno alla periferia del corpo e che danno “istruzioni” precise ai vari
muscoli, al fine di fare in modo che si comportino sempre in un certo modo,
coerente con lo schema dell’auto-rappresentazione. Qui, tale termine va inteso in
senso molto largo; esso si carica progressivamente a buccia di cipolla, di livelli
esperienziali.
L’auto-rappresentazione non è lo schema di un corpo appoggiato nel nulla,
bensì quello di una pluralità di linguaggi appoggiati ad una storia personale, radicati
in essa. Il corpo si traduce anche in quella parte di controllo delle emozioni,
nelle rughe, così dette “d’espressione”. Nell’espressività corporea risiedono la
storia dell’individuo e dei suoi abituali schemi espressivi.
Ora, il teatro, in quanto tale, interviene direttamente su questi processi, qualche
volta provocando dei cambiamenti strutturali -che possono anche essere pericolosi-.
Ogni cambiamento, se avviene all’interno di un setting giusto e di una
dinamica di sostegno e di appoggio, può, mettendo in discussione la stabilità della
propria identità, avviare un processo trasformativo atto a far prendere coscienza,
alla persona, delle proprie rigidità e ad allargare la propria dimensione espressiva
e comunicativa. Tali cambiamenti modificano fortemente anche l’auto-rappresentazione,
vale a dire, il senso di sé. Questo è un passaggio molto importante, perché
poi c’è un’etica della psicoterapia e del processo di intervento sanitario.
Noi parliamo dell’importanza della costruzione del sentimento del diritto di
esistere. Se il diritto di esistere si riferisce ad un tema di natura strettamente politico,
si tratterà di esistere in modo decoroso, quindi di avere una casa, un lavoro
ecc. Quando, invece, il sentimento del diritto di esistere si sposa con il benessere
personale, allora si parla di sentirsi in diritto di occupare uno spazio umano. Ora,
questo sentimento del diritto di esistere è un capitolo della fisiologia. Se il sentimento nasce dall’organizzazione delle tensioni muscolari, ci sono persone che
hanno bisogno di ricostruirsi tramite l’apporto che il setting teatrale può dare.
Mi rifaccio a quello che diceva Walter Orioli prima: “È fondamentale nel teatro
la costruzione della presenza… scenica”.

Anima e Corpo p17

Immaginiamo una serie di scatole cinesi -la parte più interna è rappresentata
dall’integrazione delle informazioni sensoriali che vengono da tutto il corpo, a
parte l’integrazione di quella visiva che avviene nelle aree di associazione-. Un
concetto ovvio per un fisiologo o per uno psicologo è che la prima proiezione, a
livello della corteccia, è di tipo somatotopico. L’area di rappresentazione dell’attività della mano, o quella della lingua, sono molto più estese, considerando il
numero di neuroni che, nella corteccia, raccolgono informazioni periferiche da
quelle stesse zone. Poi vi sono aree di rappresentazione cerebrale per i piedi, le
caviglie etc. per giungere, insieme, ad una visione di funzionamento globale in cui
tutti questi frammenti trovano un’unità; è una specie di miracolo funzionale. Non
è ovvio che il piede è il “mio piede”, lo diventa perché è strutturale nella nostra
esperienza. E’ il prodotto di un’attività di sintesi fisiologica che collega le varie
parti e costruisce l’unità dell’io, che passa attraverso l’auto-rappresentazione unitaria,
che non soltanto unifica i livelli esperienziali, ma che prova piacere in questa
unificazione: la libido narcisistica. Concetto che abbiamo ricavato da Freud e
dalla psicodinamica, ma che non consideriamo come una modificazione della libido
sessuale cosiddetta, ma come una capacità dell’individuo di tenere insieme le
parti del proprio corpo, di costruire, nell’auto-rappresentazione, un vissuto ed
un’esperienza di unità.
Se io frammento il corpo, il segnale del dolore scatta violentemente, se invece
nel corpo l’auto-rappresentazione si riferisce ad un’unità psicofisica, viene
conservato l’equilibrio del piacere. Allargando ulteriormente le aree di integrazione
e di sintesi, anche ferite di natura morale possono far scatenare un vissuto
di dolore, articolato naturalmente in risposte più complesse, quali la frustrazione
depressiva ecc. Capite allora che l’auto-rappresentazione diventa il nucleo centrale
e che essa si costruisce continuamente, sul rimbalzo delle informazioni che vengono
dalla periferia del corpo. Il teatro lavora proprio su questo specifico ambito
di rappresentazione.
L’auto-rappresentazione dell’io non solo stabilisce un sentimento di unità, ma
anche di stabilità spazio-temporale. Questo non avviene in molte forme di patologie
in cui troviamo delle scissioni: per questo, ciò che si è fatto ieri non lo si percepisce
fatto da se stessi. Anche la perdita di memoria è coinvolta in questo processo
di auto regolazione. Essa serve per legare il complesso delle sensazioni passate,
immediatamente passate o passate in tempo remoto, con l’esperienza presente.
Connessioni di natura neurologica operano sulle informazioni sensoriali;
quindi, non solo necessarie perché la struttura dell’io sia integrata e unitaria, ma
perché abbia un vissuto di continuità e di stabilità spazio-temporale.
Come si realizza, da un punto di vista psicofisiologico, questo vissuto? Dal
fatto che le aree di auto-rappresentazione che si sviluppano nel cervello non fanno
altro che tradurre i messaggi del corpo. Il nostro cervello, senza le informazioni
dal corpo, non ha nulla da elaborare e neanche da sviluppare: niente processi di
astrazione, niente linguaggio etc.

Anima e Corpo p16

Il cristallino, che è una parte dell’occhio, si comporta, in questi esercizi di immaginazione, in un modo identico a quello della percezione
reale. Perché? Per una ridondanza inutile? L’organismo non è abituato a
questi tipi di sprechi funzionali. Perché l’occhio, nell’immaginazione, vede?
Qualcuno chiede a questo punto: “e i ciechi”? La visione immaginata cambia
secondo il tipo di cecità, secondo il tempo in cui è insorta, se dalla nascita o meno.
Il sistema sensoriale risulta complesso, ci sono sistemi vicarianti, e alcuni di questi
fenomeni stiamo cercando di approfondirli sempre più.
A questo punto, si capisce che il processo immaginativo è un processo corporeo.
Se si immagina attraverso gli occhi, e si sente attraverso i muscoli, il punto
interessante è di combinare, come fa il teatro, la dimensione del sentire, con la
dimensione dell’immaginare. Sono, dunque, esperienze di natura strettamente
corporea, integrate nel teatro poiché esso ha questo compito: deve rendere visibile
e corporea una descrizione immaginativa scritta in un testo, o in un canovaccio
o in un’intenzione di improvvisazione. Ma tutto questo che è mentale ed esterno
al soggetto deve diventare concretamente visibile, deve essere un’esperienza
assolutamente corporea all’interno della quale si vengono ad integrare i livelli
funzionali -immaginativi, sensoriali e corporei- dello stare al mondo, perché poi
questo è l’elemento più semplice, più importante.
Non c’è possibilità di esistere senza assumere atteggiamenti che hanno un
significato. E’ già stato spiegato dagli psicologi di una certa scuola che è impossibile
non comunicare, e che anche non comunicare è comunicare di non comunicare!
Allo stesso modo, non esiste l’atteggiamento corporeo astratto di un libro di
fisiologia, quella pagina iconografica in cui sono descritti tutti i muscoli, e la
postura ecc. è un’astrazione, non una possibilità concreta. Ogni modo di porsi nel
mondo, ogni postura, ha un significato di atteggiamento posturale, è un modo di
essere al mondo, può essere una postura perfettamente rigida, militaresca, più
dinamica, più statica… ma non esiste una postura che non sia un atteggiamento
posturale concreto - proprio delle condizioni esistenziali che definiscono il qui ed
ora del soggetto-. Allora, a questo punto, la postura comincia ad essere sempre
una postura psicologica, che deve coordinare la capacità di mantenere una posizione
nello spazio e la capacità di stare in piedi col proprio modo di porsi nel
mondo. Essa è legata a tanti fattori. Il punto nucleare comune è però nell’auto-rappresentazione.
Noi diciamo che la postura è la messa in scena concreta, quindi,
una rappresentazione dell’auto rappresentazione, in altre parole della rappresentazione
che il soggetto ha di se stesso.
Ma questo fenomeno dell’auto-rappresentazione è puramente mentale?
Assolutamente no, direi. Come si costruisce un’auto-rappresentazione?

Anima e Corpo p15

Noi, rispetto a questi colleghi, facciamo un passo avanti, un passo però, che
non ha aperto nessun dibattito internazionale, forse perché i neurologi sono eccessivamente
neuro-centrici, e non hanno sufficiente cultura per affrontare la fisiologia
della periferia del corpo, come anche chi studia il comportamento muscolare
e rimane troppo focalizzato sul distretto, sull’apparato, sul sistema.
L’immaginazione è del tutto simile alla percezione, con la differenza che è autoevocata
e non etero-indotta da stimoli esterni. Nell’immaginazione visiva, lo stimolo
esterno elettro-magnetico viene tradotto, diventa segnale interno e viene
analizzato nel cervello, nella stessa area dove i colleghi americani collocano l’immaginazione.
L’immaginazione e la percezione si incontrano nella rappresentazione; tale
processo risulta assolutamente identico: io posso percepire voi, e questo è un atto
percettivo, posso chiudere gli occhi e rievocarvi, e ci possono essere delle differenze
nella nitidezza della rappresentazione, ma tutte e due sono rappresentazioni
identiche da un punto di vista fisiologico. Nella corrispondenza tra immaginazione
e percezione, noi pensiamo che il ruolo dei ricettori periferici sia assolutamente
identico: con gli occhi, si immagina visivamente.
Possiamo fare un esperimento: “Provate a chiudere gli occhi e immaginare un
cavallo in corsa, che entra nel vostro campo visivo da destra a sinistra, o da sinistra
a destra… Per qualcuno è più nitido, per altri è meno chiaro -in ogni modo,
c’è chi è più portato per l’immaginazione acustica e chi per quella cinestesica-.
Adesso provate ad immaginare il cavallo senza muovere gli occhi e il capo. Che
succede al cavallo? Si ferma. Allora se si vede correre il cavallo e perché gli occhi
si muovono e lo vedono correre. Se gli occhi non si muovono, il cavallo si ferma.
E per qualcuno, il cavallo sparisce. In ogni caso, significa che gli occhi sono usati
per l’immaginazione visiva”.
Abbiamo fatto degli esperimenti fisiologici impressionanti nella loro semplicità:
per esempio, posizionavamo una lente davanti agli occhi dei soggetti tramite
la quale vedevano un quadrato bianco, poi, chiedevamo loro di immaginare
visivamente qualcosa e di proiettare l’immagine sullo schermo, cosa che riuscivano
a fare. In seguito, applicavamo lo zoom, e loro vedevano ingrandita la loro
immagine “mentale”. Sembra quasi incredibile: la percezione parte da una modificazione
dell’input esterno! Non è ancora del tutto chiaro come modifiche dell’attività
retinica che creano rappresentazioni di tipo visivo endogene, passino
però attraverso gli occhi.
In un altro esperimento interessante, con dei colleghi oculisti abbiamo misurato
la curvatura del cristallino e, usando un sistema ecografico, abbiamo chiesto
di immaginare degli oggetti ad occhi chiusi. Ora, se si vede un oggetto lontano, il
cristallino si appiattisce; se si vede un oggetto vicino, si incurva di più. Chiedendo
ai soggetti di immaginare una nave all’orizzonte e poi di leggere le pagine di un
libro, si è notato come, nel primo caso, il cristallino si appiattiva; nel secondo, si
incurvava in modo particolare.

Anima e Corpo p14

Non solo le emozioni sgradevoli, come possano essere la rabbia o l’ansia particolarmente
elevata, possono mettere in discussione l’integrità dell’io, ma anche emozioni eccessivamente piacevoli, quali l’intensità del piacere che un’esperienza
sessuale particolarmente intensa può comportare.
Se, però, il meccanismo generatorio del sentimento è nel corpo che invia i suoi
messaggi, se appunto l’emozione è in funzione dell’io e si realizza attraverso l’attività
corporea prevalentemente legata a variazioni del tono muscolare, l’inibizione
non può essere che un meccanismo che modifica il tono muscolare, in modo
da impedire, opponendo resistenza alla variazione muscolare che corrisponde
all’emozione inibita.
Una contrattura, una rigidità muscolare, si oppone a questa capacità dell’individuo
di produrre sensazioni somatiche; ci si accosta ad un soggetto e si comincia
a vedere che ci sono delle aree corporee contratte, rigide, e probabilmente esse
sono tali perché si è messo in atto un meccanismo di inibizione di un processo
emozionale. Il processo emozionale viene spesso bloccato perché l’io non è in
grado di gestirlo. È quello che in area reikiana chiamano “blocco”, partendo però,
non da una concezione della struttura psicofisica dell’io, ma da una concezione di
blocco energetico, rifacendosi ad un modello freudiano riportato nella sua corporeità,
che però andrebbe profondamente rivisitato, anche perché il meccanismo di
energia, nell’organismo, è molto più complesso di quanto possa sembrare.
Esiste energia meccanica ed energia chimica, ma non esiste energia psichica e
tutto ciò fa ridere i biologi. Ma se i biologi smettessero di ridere e capissero la
consistenza di questi comportamenti, forse si farebbero dei grossi passi avanti.
Un altro ambito che noi abbiamo studiato è quello dei processi immaginativi
quali funzione dell’io.
L’immaginazione serve essenzialmente a definire il presente e a riscrivere la
realtà. La realtà esiste poiché c’è l’immaginazione che la vita finisce: se io immagino
di voi che non siete delle persone venute ad un convegno ma dei futuri kamikaze,
il mio modo di pensare, di capire, di descrivere, di vivere, di percepire,
sarebbe completamente diverso. È la rappresentazione che io ho di voi, in quanto
corrispondente ad un mio piano immaginativo, che decide il mio comportamento,
le mie analisi mentali ed il mio modo di relazionarmi - ridefinisce quindi la realtà-.
La memoria, poi, serve per organizzare o definire il presente, recuperando il
passato, prossimo e remoto, con vari meccanismi di circuiti neurologici e trasformazioni
chimiche più profonde. Nella memoria, inoltre, rientra la funzione dell’oblio,
la capacità di dimenticare, senza la quale tutto il gran volume di informazioni
disponibili non potrebbe essere tenuto insieme dal soggetto.
Tornando, invece, all’immaginazione, essa, così come viene fuori degli studi
condotti da numerosi colleghi per il più statunitensi, è molto vicina ai processi
percettivi. Se proviamo ad esaminarla, sia tramite studi sulle lesioni che tramite
altri sistemi di rilevazione, notiamo come essa abbia luogo prevalentemente nelle
stesse sedi cerebrali in cui vengono elaborate informazioni sensoriali specifiche.
Ad esempio, l’immaginazione visiva si localizza in corrispondenza della corteccia
occipitale.

Anima e Corpo p13

L’emozione è uno schema di risposta innato, geneticamente predeterminato, che compare in rapporto a diversi contesti e situazioni stimolo, esso compare in modo
automatico o in rapporto ad un’elaborazione cognitiva: posso emozionarmi perché
ho paura di perdere il treno o perché incontro la mia fidanzata. Esiste un
ambiente che è quello decisivo che fa scattare, intervenendo su una sorta di interruttore,
la risposta emotiva, ma in che cosa consiste questa risposta? In una serie,
in un programma predeterminato, di modifiche corporee.
Riguardo alle modificazioni corporee, si è discusso a lungo sulla teoria di
James e Lange, i quali hanno sottolineato il ruolo della periferia del corpo nella
genesi dell’emozione. Ciò ha dato luogo a discussioni e anche ad alcuni grossolani
fraintendimenti: si dice “scappo perché ho paura, o ho paura perché scappo?” -
grossolana distinzione-. Non è questo. L’emozione non è il comportamento istintivo,
vi è una differenza sostanziale tra un comportamento di rabbia e un comportamento
aggressivo. Non tutti i momenti di rabbia evolvono in comportamento
aggressivo, ci può essere una rielaborazione cognitiva della rabbia che sollecita
risposte di carattere cognitivo. Allora gli psicologi saranno lì a studiare quanto
aggressivo può essere il comportamento verbale, una rielaborazione che non è
automatismo. La rabbia è, invece, strettamente legata ad una tensione preparatoria
ad un comportamento aggressivo. Questa tensione preparatoria rappresenta lo
specifico poi, del comportamento emozionale, del vissuto che chiamiamo sentimento.
Nella lingua italiana questo fenomeno è semplificato perché “sentimento”
viene da “sentire”, una delle modalità di organizzare le informazioni sensoriali. Il
sentimento è un elemento strutturale del processo emozione, alla base dell’integrazione
delle informazioni sensoriali. Senza il “sentire” unificato, non possiamo
parlare di emozione.
Questo è molto importante, perché si comincia a capire come i livelli funzionali
che si ritrovano nell’ambito del teatro, non sono parti poi scisse, che il teatro
gioca ad operare un processo di reintegrazione, o a liberare possibilità espressive,
emozionali.
Uno dei capitoli interessanti in rapporto all’emozione, è l’inibizione dei meccanismi
emozionali stessi. Una parte del processo trasformativo, specialmente in
certe tradizioni (nell’arte-studio, per esempio) lavora molto -forse con qualche
rischio, perché la terapia comporta anche un rischio- al fine di rimuovere il meccanismo
d’inibizione, senza peraltro comprendere esattamente in che cosa consista
l’inibizione stessa da un punto di vista fisiologico, e senza comprendere quale
rapporto ci sia tra l’inibizione e le funzioni integrate dell’io, in quanto l’inibizione
può essere un elemento fondamentale dei meccanismi di difesa. L’emozione,
dunque, diventa un segnale autoregolato, modulatorio del comportamento in
quanto risposta. L’inibizione dell’emozione, allora, può essere considerata come
un meccanismo di difesa: il soggetto, incapace di gestire il proprio livello emozionale,
attua una regolazione del flusso emotivo per ristabilizzare il “sistema”.

Anima e Corpo p12

Il bambino che fa? Espleta i suoi bisogni primari avvertendo sensazioni di
caldo o di freddo, integrandole; e proprio questo processo d’integrazione memorizzato
diviene struttura psicologica. Per capire questa successione bio-sociale
dell’io possiamo fare l’esempio del linguaggio verbale: esso è un fenomeno sociale
o un fenomeno biologico? Naturalmente verrebbe da dire entrambi, ma è
importante cominciare a capire come i due ambiti funzionali possano trovare concretezza.
Non si nasce con le parole, e quindi nel cervello non c’è il linguaggio, si
nasce con l’attitudine al linguaggio, con la potenzialità di esprimersi tramite il linguaggio,
quindi il cervello è una struttura in quel momento assolutamente plastica,
chiamata “indifferenziata”, che soltanto col rapporto e l’esposizione alla cultura
può cominciare a differenziarsi: impara l’italiano se nasce in Italia, il finlandese
se nasce in Finlandia ecc. e, quindi, se non c’è una differenziazione funzionale
di questi organi geneticamente pre-formati mediante l’esposizione ad una
cultura, non c’è la nascita del linguaggio concreto. In seguito gli specialisti parleranno
di disturbi del linguaggio, della relativa plasticità, dei tempi e degli intervalli
giusti in cui questo meccanismo di adattamento può realizzarsi, ma questo è
un altro discorso. Quindi il fenomeno è sociale, socio-culturale, ed allora la biologia
è sparita? No, perché il fenomeno socio-culturale in quanto oggetto di
memorizzazione è diventato fenomeno bio-chimico, per cui nel cervello sono
depositati gli schemi e i modelli del linguaggio verbale, non soltanto le parole, ma
le modalità con cui le parole si organizzano, grammatica, semantica ecc. Ad ogni
modo, il “materiale chimico” organizza l’attività razionale, e consente lo sviluppo
ulteriore dell’io. Ecco che si coglie una continua relazione tra il livello cosiddetto
biologico e quello psichico e nessuno dei due è sopprimibile. Non c’è un
mentale che diventa corporeo, è la differenziazione e l’evoluzione trasformativa
nel corporeo che genera la struttura mentale. In termini epistemologici questo è
ancora oggi un dibattito molto allargato, ci sono questi mentalisti che sostengono
la pre-esistenza dei concetti, processi di astrazione nei processi estetici, pur non
riuscendo ancora a trovare ad essi una definita collocazione.
È interessante capire allora in che cosa consiste il modulo organizzativo che
unifica i diversi livelli di esperienza. Ed è utile cominciare a descrivere le forme
di esperienza, per esempio: che cos’è un’emozione? Che cos’è il processo immaginativo?
Ora anche l’emozione è considerata da molti studiosi ancora un fenomeno
puramente mentale, ma occorre rilevare la sua valenza corporea poiché l’emozione
è un processo di risposta innata, presente in tutti gli animali. Darwin ha
studiato le emozioni degli animali: alla fine dell’”800” ha scritto un saggio molto
interessante, che rileva come non siamo solo gli umani ad avere delle emozioni,
per esempio un comportamento aggressivo si trova nei gatti come negli uman

Anima e Corpo p11

CAPITOLO 1
ANIMA E CORPO
Vezio Ruggieri - Il corpo, identità e teatro Università La Sapienza, Roma
Cos’è la teatroterapia?
Per inoltrarmi in questo complesso argomento ritengo necessario partire dalla
definizione del termine terapia, poiché su questo termine converge la maggioranza
degli equivoci e delle incertezze sollevate dall’eterna diatriba tra le necessità
del sistema sanitario riabilitativo e la psicopedagogia formativa.
Se rilegassimo il concetto di terapia al concetto di “trasformazione” ogni cosa
cambierebbe, perché all’interno di uno stesso termine troverebbe spazio un ampio
processo che, essendo trasformativi, potrebbe essere considerato terapeutico, e
certamente formativo in ambito pedagogico.
Ma che cosa è in trasformazione e, soprattutto, quale struttura può essere o non
essere trasformata?
Il teatro può rappresentare da una parte un ampliamento dello spazio esperienziale,
e dall’altra operare in senso profondamente trasformativi, allargando
quello che sento e che provo proponendomi esperienze emozionali mai avvertite
prima, facendo leva su alcuni aspetti strutturali della personalità. Tutto ciò necessita
ovviamente di una certa chiarezza, di una tendenza alla condivisione e non
solo dei linguaggi (nel senso di definizioni, sistema definitorio di che cos’è una
struttura psicologica o psicofisiologica).
In passato ci siamo occupati di emozioni, poi siamo passati a studiare l’immaginazione,
sempre in termini fisiologici, per poi comprendere (seguendo un po’
lo stesso percorso della psicodinamica freudiana) che sia emozioni che immaginazione
sono funzioni dell’io, allora quello che diventa interessante è l’analisi
della struttura dell’io. Nell’analisi della struttura dell’io, queste funzioni vanno in
qualche modo articolate e spiegate perché l’io è sempre se stesso, sia nel momento
in cui svolge attività vegetative quando batte il cuore, quando va a liberare il
suo intestino ecc. che quando pensa, quando si emoziona. È sempre la stessa struttura
pur presentando funzioni diversamente articolate in situazioni diverse; il
paradosso dell’unità della struttura è anche nel fatto che gli stessi muscoli servono
al fine di produrre gesti emozionalmente carichi, come per esempio un abbraccio,
una fuga ecc. ma anche per stare meramente in piedi.
La costruzione del corpo umano è stata fatta al risparmio! Lo stesso apparato
muscolare secondo le situazioni, pur sempre mantenendo la sua struttura nucleare,
può differenziarsi in gesti carichi di significato ed emozionali.
L’analisi della struttura dell’io, quindi, studia diversi livelli funzionali senza
soluzione di continuità, per questo, dal livello chimico-biologico più elementare,
si passa a quello biologico in cui si organizzano organi, tessuti, apparati, e poi a
quello di coordinamento di queste funzioni, e poi ad un processo di integrazione
ulteriore: l’io, dunque, dunque, non è altro, all’inizio, che un modulo organizzativo dei vari
livelli funzionali.

Introduzione

In Italia sono poche le istituzioni che si occupano della funzione terapeutica
del teatro e delle arti in genere, tra questi enti vi è la Federazione Italiana
Teatroterapia, con sede a Monza, che ogni anno promuove un simposio di studio,
raccogliendo le sinergie di Enti Locali, Istituzioni Teatrali, Università e
Associazioni, sull’argomento, ed è proprio in questa atmosfera di intenti che
l’Associazione Politeama, grazie all’intelligente sostegno del Comune di Varedo
in provincia di Milano, ha potuto realizzare questo simposio.
Il convegno1 che presentiamo vuole essere un momento di riflessione intorno
al teatro inteso come metafora della vita per cercare di comprenderne i confini con
la realtà, dove termina l’uno e prende il via l’altra, una ricerca per sviscerare quattro
temi nodali della teatroterapia o, come si suole dire, del teatro in funzione
sociale e terapeutica.

Il primo tema si sofferma sulla relazione corpo-mente, questione che ha già
introdotto anche il sindaco, affermando che da soli non siamo nessuno. Noi concordiamo
con questo ed è il taglio che vogliamo dare alla teatroterapia; può sembrare
una questione privata ma, in realtà, non lo è; o meglio, è sì una questione
privata, nel senso che noi lavoriamo su noi stessi quando entriamo in uno spazio
scenico, ma è anche e soprattutto una questione di relazione con noi stessi e con
l’altro da noi.

Prende dunque forma la tematica dell’ io, che sarà affrontata ampliamente da
Vezio Ruggieri.
Quello che c’interessa rilevare riguarda il tema del setting teatrale, luogo dove
si sviluppano relazioni molto lontane ma contemporaneamente molto vicine alla
vita, dove c’è certamente la finzione del teatro che potrebbe allontanarci da quello
che è il nostro quotidiano, ma dove scopriamo che continuamente la finzione
ci porta in contatto con qualcosa di veramente autentico che è in noi: un nucleo
interiore che chiamiamo “corpo-mente-cuore”, aggiungendo anche “cuore” alla
relazione in oggetto oggi -“La relazione tra il corpo da un punto di vista fisico,
fisiologico, muscolare”-, ma anche cognizioni, emozioni e sentimenti.
Nel secondo argomento, affronteremo il linguaggio, perché sappiamo che le
norme di comunicazione che usiamo costituiscono i linguaggi del cambiamento.
Il linguaggio del teatro, in senso di esperienza rituale, cambia le persone facendole
accedere in uno spazio dove c’è la possibilità di vivere situazioni che non si
conoscono. Esso sarà dunque l’argomento cardine sul quale punteremo l’attenzione
domani, con gli interventi di Claudio Bernardi, antropologo, e di Ivano
Gamelli, pedagogo, poiché sappiamo che ciò che fa terapia in teatro è proprio il
dal teatro alle arti terapie 30-06-2006 10:16
linguaggio o, più esattamente, la funzione del linguaggio teatrale che sviluppa una
certa creazione dentro di noi. Naturalmente non si può parlare di un unico linguaggio
teatrale ma di una molteplicità legata ad esempio al training dell’attore,
all’immaginazione, alla creazione dell’opera, ognuno dei quali sviluppa in noi
alcune istanze di liberazione.

Il terzo tema è l’arte, perché noi facciamo teatro ed è quest’arte che si vuole
mettere al centro della discussione, poi viene la terapia; ci allontaniamo perciò
dallo psicodramma e da tutte le tecniche analitiche di gruppo, concentrandoci
sulla questione della messa in forma e della ripetibilità del nostro gesto: questo è
l’arte teatrale, ma non solo, questo è quello che fa il teatrante, mentre noi non
siamo teatranti DOC, siamo teatranti senza necessità, nel senso che facciamo
molta attenzione al contenuto emotivo cercando di unire l’estetica dell’arte all’ascolto
delle emozioni ed affermandone l’importanza del contenuto emotivo.
Su questo argomento interverranno Claudio Merini e Claudio La Camera con
i quali vorremmo discutere sul come fare teatro poiché, se non è nelle nostre
intenzioni fare quello classico, né tanto meno quello d’avanguardia, allora che
teatro vogliamo fare?
Il quarto tema è il corpo in scena, prospettiva all’interno della quale saranno
convogliati gli argomenti trattati nei giorni precedenti proprio a rilevare come il
corpo sia simbolo di benessere. Noi facciamo teatro per sviluppare, per creare un
certo equilibrio in noi, non vorremmo curare col teatro, vorremmo solo riuscire a
stare bene col teatro. Tale tematica, approfondita nell’intervento di Enrichetta
Buchli, sarà dedicata a Jung, in quanto psicanalista che sviluppa il “simbolo”,
“l’archetipo”, il “disegno”.
I laboratori che si faranno sono da considerarsi introduttivi alla teatroterapia
ma, allo stesso tempo, di approfondimento poiché il nostro indirizzo è un indirizzo
di artiterapia, nel senso che il teatro è concepito da noi come l’insieme delle
arti: la musica, la scultura (nella creazione di oggetti simbolici che vengono poi
usati per la scena), etc.
Per quanto riguarda l’intervento di Vezio Ruggieri, volevo fare una piccola
introduzione perché, probabilmente, il professore ci guiderà verso un aspetto specifico
che è il suo campo di lavoro, quello della psicofisiologia.
Il nostro incipit è incentrato sul corpo, la mente, il cuore, in altre parole su
quello che chiamiamo l’unità psicofisica, la relazione autentica con noi stessi. Ma
questa relazione, dal punto di vista della performance, crea una realtà. Attraverso
l’esperienza del teatro, esprimiamo un modo di essere. Nel momento in cui noi ci
inseriamo in un setting rituale, creiamo una realtà, una nostra realtà originaria che
passa attraverso il nostro corpo, la mente e il cuore, cioè nella nostra fisicità, nella
nostra razionalità e nella nostra emotività. Quando noi separiamo questi elementi,
lo facciamo solo ed esclusivamente per motivi di studio, in realtà quando noi
agiamo in questo spazio rituale, queste nostre componenti sono alchimicamente
fusi.


Ecco da dove viene l’alchimia del teatro ed ecco perché gli elementi portanti
del nostro io, della nostra persona, sono già un tutt’uno. Questa è la nostra realtà,
vera, che si esprime da sola -noi non abbiamo bisogno, paradossalmente, di testi
teatrali o di fare molto training fisico… no, la realtà del corpo-mente-cuore si
esprime da sola senza troppe necessità, basta creare un setting propositivo di fiducia,
di lavoro, di precisione e questa realtà si esprime in modo naturale.
E non è la realtà quotidiana, è una realtà extra-quotidiana. Non è il principio
di realtà di cui parla Freud, ciò che noi dobbiamo mettere in atto per far fronte
all’ambiente esterno. Qui non c’è ambiente esterno, noi siamo in un setting protetto,
lontano dall’ambiente esterno, non c’entra il principio di realtà, noi possiamo
usare altri principi all’interno del nostro setting e non è nemmeno paragonabile,
da un punto di vista culturale, al realismo. Non è che noi vogliamo portare
un’esperienza di realismo, né di verismo, non c’entra. La realtà del teatro è, secondo
me, l’inaspettato, qualcosa che ci sorprende, il fuori programma. Noi possiamo
fare tutti i programmi, anche come teatroterapeuti, possiamo stilare ogni progetto
di seduta e poi, quando ti trovi di fronte al gruppo, c’è sempre il fuori programma,
è la regola, quindi noi dobbiamo avere fiducia nel processo più che nel
programma. La realtà del teatro che è l’indeterminabile a priori, diviene però il
determinante, qualcosa che poi ci determina, determina chi siamo dentro veramente,
anche nelle nostre relazioni con gli altri. In quel luogo sveliamo i nostri
processi relazionali, lì non possiamo fingere, quando siamo nel setting, non possiamo
essere falsi, allora, il teatro acchiappa la realtà del corpo-mente-cuore come
se facesse da catalizzatore di questa finzione-realtà. Una realtà che nessuno fino
ad ora aveva osservato poiché essa si può osservare solo nel momento in cui accade,
ed allora, noi cosa mettiamo in scena? Mettiamo in scena ciò che non conoscevamo
prima ed il pubblico cosa vede quando viene inserito nel setting del teatroterapia?
Il pubblico è spiazzato indubbiamente, ma non nel senso di sconvolto,
o sobbalzante, ma nel senso di una relazione più sottile perché nella misura in
cui noi mostriamo tutto questo processo trasformativo, è chiaro che il pubblico
non può stare tranquillo a guardare, poiché esso verrà per rispecchiamento coinvolto.

Orioli